
Il profumo del caprifoglio é così buono al crepuscolo...
“Era un pomeriggio torrido, e ancora sento l’aroma del caprifoglio che aleggiava lungo tutta la strada. Come avrei potuto immaginare che, talvolta, il delitto possa avere il profumo del caprifoglio?”. Queste sono le celeberrime battute iniziali del più grande film noir di sempre, “Double Indemnity” di Billy Wilder (“La fiamma del peccato”, 1944), scritte peraltro dagli sceneggiatori Billy Wilder e Raymond Chandler, perché nell’asciutta novella originale di James M. Cain non ve n’é traccia. A pronunciarle - con la tipica voce fuori campo usata per raccontare i flashback in soggettiva - é l’assicuratore Walter Neff (Fred MacMurray), che si avvia verso la casa di un cliente senza sapere che vi incontrerà la femme fatale riservatagli dal destino (Barbara Stanwyck) e, con lei, la futura condanna a morte.
Anche in “Døden er et kjærteg” (“La morte è una carezza”, 1949, Norvegia, dir. Edith Carlmar) a un certo punto il protagonista Erik Hauge (Claus Wiese) dice che “il profumo del caprifoglio é così buono al crepuscolo, passeggio qui apposta per venirlo a sentire”. Hauge è un giovane e bellissimo ragazzo che lavora come meccanico, ha una fidanzata splendida ma un giorno incontra anche lui la sua femme fatale, la ricca Sonja Rentoft (Bjørg Riiser-Larsen) più anziana e intraprendente di lui che, (infelicemente) sposata, inizia a “puntare” la giovane preda fino a un ennesimo e fortuito incontro tra i due vicino al giardino “del caprifoglio”, dove si danno il primo bacio.
A questo punto lo “spettatore-noir” si attenderebbe che il palese omaggio del film al classico hollywoodiano gli facesse prendere la stessa piega, ovvero l’omicidio del marito di lei da parte della coppia fedifraga per vivere liberi e intascarne i soldi, magari con una fuga in Messico. Tuttavia, nonostante le audacissime (per l’epoca) scene di passione e nudo, i due amanti semplicemente si innamorano e decidono di risolvere la questione con un banale divorzio in tribunale. Una volta sposati, però, ecco echeggiare il secondo dei due scoperti tributi al noir americano: Sonja si rivela una donna patologicamente e (ingiustificatamente) gelosa con manie di possesso e di controllo sul partner, e arriva addirittura ad abortire volontariamente pur di vendicarsi dei presunti torti di Erik. È, come si sarà già bene inteso, il soggetto di “Leave Her to Heaven” (“Femmina folle”, 1945, dir. John M. Stahl) con Gene Tierney, ma neanche in questo caso l’esito è quello del modello, perché il giovane meccanico - esasperato oltre ogni limite e ferito dalla moglie - arriva ad ucciderla (mentre il personaggio della Tierney si suicidava accusando della sua morte la sorella per impedirne il futuro matrimonio col marito).
Ebbene, nonostante le citazioni a pioggia e l’omicidio finale, “La morte è una carezza” non si rivela essere affatto un film noir, ma piuttosto un melodramma costruito su elementi narrativi e di dialogo tipicamente noir (ad es. Erik dice che “un brivido caldo mi attraversa ogni volta che la memoria mi riporta a quella prima volta in cui la vidi”) ma “non digeriti”, e riconvertiti in meri stereotipi, che non portano con sé “l’idea del noir”, del suo profondo impatto su un modo nuovo di intendere l’opera d’arte, ma compaiono come “soprammobili” di una messa in scena che la regista Edith Carlmar, qui all’esordio, ambienta peraltro quasi sempre in pieno giorno, alternando a un piatto realismo rappresentativo una serie di curiose sequenze a dissolvenze incrociate che sottolineano certe situazioni con metafore visive basate su oggetti (due bottiglie a mo’ di lancette che ruotano sul tavolo puntando un cerchio di bicchieri da champagne, ad esempio, evidenziano le disinvolte abitudini alcoliche di Sonja).