
Una fondamentale serietà di fondo

Dispiace dirlo a chi ama il cinema francese, ma un titolo come “John og Irene” (John e Irene, Danimarca, 1949, dir. Asbjørn Andersen) - pur essendo lontano dal poter essere considerato un caposaldo del genere - ci è piaciuto comunque molto di più di un qualunque titolo di Henri-Georges Clouzot. È probabile - anzi certo - che in ciò influisca il nostro modo di definire “cosa sia noir e cosa no”, tema notoriamente indecidibile, ma francamente sarebbe difficile sostenere che la continua minaccia (spesso realizzata) di spocchiosa farsa della via al noir praticata Oltralpe possa essere costitutivo del genere.
Certamente lo è, al contrario, una fondamentale serietà di fondo, che in “John og Irene” tocca in alcuni punti anche estremi di quella “noia metafisica” per cui sono celebri molte pellicole girate tra i fiordi: i ballerini John (Ebbe Rode) e Irene (Bodil Kjer) percorrono su un automobile ancora da finire di pagare migliaia di chilometri lungo l’intera penisola scandinava con ingaggi che scarseggiano e liti sempre più violente, nate soprattutto dalla frustrazione di lei per le deluse speranze di gloria e benessere.
Finché, quando Irene rivela di essere incinta ma di non voler tenere il bambino perché questo significherebbe sprofondare la coppia e il nascituro in una vita al limite della fame, John - dopo essersi visto rifiutato un prestito che permetterebbe alla partner il “lusso” di una maternità - uccide il loro impresario per derubarlo della somma. Il road movie si trasforma così in un Kammerspiel, in un dramma di camera d’albergo a Stoccolma in cui John tenta invano di convincere Irene che quei soldi li ha avuti in prestito da un ricco amico che ha fatto fortuna in America con l’unico risultato di portarla ad abortire per disperazione. Come si vede, un melò più che un noir, condito però da un senso di sradicamente esistenziale e da dialoghi e situazioni di dibattito morale e “lirismo di coppia” che alzano il tono verso quelli che saranno i grandi esiti bergmaniani.