
I gangster di Ingmar Bergman
I film con protagonisti gangster, mafiosi e/o personaggi della malavita non sono assimilabili sic et simpliciter al noir. Raymonde Borde e Étienne Chaumeton, nel loro volume “seminale” Panorama du film noir américain 1941-1953, sottolineano come, rispetto ad esempio agli antecedenti degli anni ‘30 (valga su tutti “Piccolo Cesare” del 1931 con Edward G. Robinson), ci sia un “di più” di violenza, spesso gratuita, da parte dei “cattivi”, e come i film siano girati dal punto di vista di questi ultimi, e non della Legge, che comunque a Hollywood deve trionfare. Noi aggiungeremmo che i gangster del noir non possono che essere di piccolo cabotaggio, anche quando aspirano, come James Cagney nel finale di “The White Heat” (1949, “La furia umana”), ad ascendere al “Top of the world”: la parabola noir infatti non prevede solo un descensus ad inferos ma anche che questo sia ben distinto dal genere tragico, il quale non prevede infatti - secondo Aristotele - che un personaggio “non nobile” passi dalla felicità alla infelicità, perché questo non genera alcun effetto di “pietà e terrore”. E così é il noir, come genere di espressione artistica nato negli anni ‘40 del ‘900, a regalarci i primi grandi esempi di gangster “moderni” e “non nobili”, su tutti probabilmente l’indimenticabile, folle Tommy Udo - dal riso sardonico del Joker e che probabilmente ispirò Jack Nicholson per The Shining (1980) - ma anche le prime inevitabili riflessioni sulla delinquenza giovanile, per il periodo americano classico pensiamo naturalmente alla coppia à la Bonnie e Clyde di Gun Crazy (1949, “La sanguinaria”).
Nel cinema svedese il “gangster noir” giovanilistico esordisce invece con Medan staden sover (1950, traduzione letterale “Mentre la città dorme”, uscito in Italia all’epoca come “La banda della città vecchia”). È interessante che uno dei primi titoli di testa del film sottolinei come la storia - pur tratta dalla novella “Ligister” (“Gangsters”) di Per Anders Fogelström - venga presentata come “una idea di Ingmar Bergman”. Di certo sappiamo che Bergman inventò il personaggio del protagonista, Jompa (Sven-Eric Gamble), la cui parabola - da capo di una banda di quartiere sfuggito alla galera grazie all’omertà dei complici a “partner in crime” di una matura e affascinante avventuriera (Barbro Hiort af Ornäs) strappata a un pezzo grosso della malavita (Ulf Palme) - finisce con una disperata fuga finale neppure premiata da una morte eroica dopo un maldestro tentativo di rapina finito in omicidio. Ma è la psicologia, più che le vicende, a lasciare traccia di Jompa nello spettatore, perché anticipa di cinque anni netti il James Dean di “Rebel Without a Cause” (“Gioventù bruciata”), ovvero il ritratto della decadenza di uno stile d vita e di una società in cui l’incomunicabilità inter-generazionale si è fatta assoluta. Jompa, però, a differenza di Jim Stark, è un anti eroe tragicamente solitario - i ragazzi della sua banda lo piantano in asso per paura della prigione, non è capace di alcuna empatia con l’innamoratissima fidanzata (Inga Landgré) che gli ha appena dato un figlio - e, tradendo perfino il padre che gli ha procurato un lavoro con il furto nottetempo delle paghe dei lavoratori della sua fabbrica, da una parte cerca apertamente di imitare i modelli americani visti al cinematografo (“che cosa danno stasera al cinema?”, gli chiede la fidanzata, “qualcosa con Richard Widmark, suppongo” risponde lui strizzando l’occhio alla camera e sottolineando l’aperta “rottura della quarta parete”), dall’altra è votato a un oscuro nichilismo che risucchia costantemente le luci di scena (il direttore della fotografia Martin Bodin e il regista Lars-Eric Kjellgren riducono spesso i volti a un occhio che guarda intimorito in mezzo al buio) e distrugge ogni possibile progetto di vita attorno a lui, spesso con la postura di un esteta e con il sottofondo del jazz, anticipando per la naturalezza delle recitazione e delle scene certi momenti della Nouvelle Vague francese.