
Il noir e il dramma barocco tedesco

“La conclusione definitiva del noir è che dal destino non c’è scampo”.
Questa la chiusa della scheda che la rassegna “Norden noir”, proposta all’ultima edizione del Festival del cinema ritrovato di Bologna, dedica a “To minutter for sent” (“Due minuti di ritardo”, 1952, Danimarca). Si tratta, va detto subito, di un film invecchiato malissimo, che annoia o fa ridere secondo le preferenze dello spettatore moderno. Ma, al di là di questo (con i film incapaci di superare il loro tempo può sempre accadere) quella che lascia perplessi è per l’appunto la motivazione “del destino implacabile” per cui lo si vuole ascrivere al noir.
Ora, viviamo in un’epoca in cui molti gialli letterari appunto scandinavi e anche diversi film che, oltre a uno o più delitti, contengono del “maledettismo”, vengono definiti “noir”, con buona pace di tutti. Non saremo noi a voler contrastare questo (cattivo) uso, che ci sembra solo un modo fanciullesco di chiamare il “giallo” con il nome da sempre a esso attribuito dai francesi. Se però parliamo di noir cinematografico classico, oppure se parliamo di noir come tentativo di definizione critica, questo non è un noir. Come spiega Walter Benjamin nella sua introduzione al “Dramma barocco tedesco”, ogni tentativo di inscrivere un’opera a un genere per via induttiva è destinato a un inglorioso fallimento: non conta nulla se nella sceneggiatura di un film c’è un motivo legato alla implacabilità del destino (in questo modesto titolo svedese c’è) e se vi si dispiega al contempo uno stile visivo di tipo espressionista frammezzato alla lezione dell’Orson Welles di Quarto Potere (c’è anche quello, e anzi diremo che “To minutter for sent” è una specie di antologia di momenti - non i migliori ma i più iconici - dell’espressionismo di Weimar). Essendo l’idea di noir che fa il film, e non viceversa, qui il noir non c’è perché, incapaci di comprenderne l’idea, gli autori non potevano di conseguenza metterla in scena. Chi ha ucciso Sara Klint (Jeanne Darville), donna di malaffare e ricattatrice seriale? Riprendendo la folgorante conclusione di Sergio Maldini sul Caso Bebawi, potremmo dire che “l’uomo civile può anche permettersi di non saperlo”. Ma se proviamo a continuare questa disamina, il colpevole potrebbe forse essere uno dei tanti uomini da lei ricattati, ad esempio il seduttore Max Paduan (Poul Reichhardt), bel tenebroso dal passato torbido e dalla moglie patologicamente gelosa (Grethe Thordahl)…
Più che la polizia è la cognata di Max, Beth (Astrid Villaume) di lui neanche tanto segretamente invaghita, a condurre le indagini per scagionarlo, in mezzo a una selva di caratteristi come lo spazzino di strada beone, il venditore di libri disperato o l’orologiaio gobbo e matto. Ora, il fatto che tutto questo materiale potenzialmente noir produca solo una inconcludente farsa peggiore di quella dei film francesi coevi (e ce ne vuole a fare peggio dei francesi…) dovrebbe però insegnarci ancora una volta di più che l’appartenenza di un film a un genere non può essere assimilato alla bilancia del macellaio o del pescivendolo - mi metta un “pezzo” di destino qui e una inquadratura in diagonale là, con un pizzico di ombre e mi incarti il tutto - ma che invece ciò avviene solo quando quella idea di genere - che esiste indipendentemente dalla singola realizzazione - si manifesta in un’opera - prendiamo le due maggiori di sempre, “Double Indemnity” e “Vertigo” - in quanto (in quel caso due geni, Wilder e Htichcock) i registi (e gli sceneggiatori, e i direttori della fotografia) aderiscono pienamente a quell’idea artistica, la avvertono come fondante per spiegare il tempo in cui vivono e capace di “purificare” lo spettatore dai demoni che l’idea porta con sé. Non è questo il caso di “Due minuti di ritardo”, né di altre centinaia di film o romanzi che la superficialità dei recensori moderni cerca frettolosamente di incasellare come noir. Chiamiamoli, come si è sempre fatto, “gialli”, e non li costringeremo a paragoni francamente imbarazzanti.